Maestà di Ognissanti di Giotto

Una delle stanze più rinomate del celeberrimo museo delle Gallerie degli Uffizi di Firenze è la Sala 2, la sala del Duecento e di Giotto. Entrare in questo luogo è un’esperienza suggestiva, che ci illumina sulle vicende dell’arte italiana di fine Duecento e inizio del Trecento, è come cominciare un viaggio nella pittura italiana partendo dalle sue origini.

In questa sala, l’esperto d’arte Bernardo Randelli ci guida alla scoperta di un capolavoro dell’arte medievale italiana, un’opera che per oltre un secolo ha rappresentato un modello d’ispirazione per i pittori fiorentini: la Madonna col Bambino in trono, angeli e santi, meglio conosciuta come Maestà di Ognissanti di Giotto. 

 

 

La sacralità tradizionale di un’opera innovativa

Il dipinto risale al 1300 – 1305 circa e prende il nome dalla chiesa di Ognissanti a Firenze, dove era originariamente collocato. Come tutte le pale d’altare, le sue dimensioni sono piuttosto grandi (3,25 × 2,04 m) e la tecnica pittorica utilizzata è tempera su tavola, tipica di questo periodo. Non si sa con certezza quale fosse l’originale posizione del dipinto in chiesa, ma è possibile che si trovasse su un altare laterale o sul tramezzo che divideva lo spazio dei laici dal coro dei frati Umiliati che officiavano il tempio.

Per la prima volta nella storia della pittura occidentale, la Madonna e il Bambino appaiono inseriti in uno spazio ben definito: Maria, come una regina, siede su un trono – iconografia che dà il titolo di Maestà al dipinto – prospetticamente ben concepito, che rende l’idea di un ambiente reale.

La composizione è simmetrica e centrata in modo determinato sulla Vergine, che tiene il Bambino seduto sulle ginocchia come farebbe qualsiasi madre; mentre Gesù benedice con la mano destra e tiene nella sinistra una pergamena arrotolata, simbolo di sapienza. Ai lati del trono, gli spazi speculari sono riservati ad angeli e santi, raffigurati di profilo o di tre quarti. Gli angeli inginocchiati ai piedi della Vergine offrono in dono rose e gigli, simboli di purezza e carità. L’alternanza del rosso e del blu delle loro ali indica la sostanza del corpo angelico, fatto di fuoco e di aria. Subito dietro, in piedi, troviamo i due santi che porgono una corona (ecco ancora una volta il riferimento alla “maestà”) e una pisside, oggetto liturgico che allude alla Passione di Cristo; mentre, alle loro spalle, figurano gruppi di santi parzialmente coperti dalle loro stesse aureole e dall’architettura del trono, suggerendo l’esistenza di uno spazio concreto entro il quale si collocano le figure.

La scena è semplice ed essenziale, senza profusione di decorazioni, sebbene persistano alcuni elementi legati alla tradizione bizantina, come il fondo oro e la prospettiva gerarchica (più grandi la Madonna col Bambino, più piccoli gli angeli che li circondano).

Le figure hanno una carnagione chiara e naturale, le vesti non hanno più un colore piatto ed uniforme e, nonostante la luce sia frontale e ancora di tipo ideale, il chiaroscuro applicato alle pieghe della stoffa dà solidità e volume ai corpi. L’innovazione è legata proprio alla rappresentazione dello spazio e del volume dei personaggi: Giotto crea la profondità grazie alla sovrapposizione dei soggetti e alla prospettiva assiale. Sovrapporre i personaggi nascondendo in parte i loro volti – come accade ai santi del dipinto – era una pratica nuova nel medioevo, epoca in cui le composizioni erano abitualmente strutturate in modo tale che di tutti i personaggi fosse ben visibile il volto. Ugualmente innovativa è la costruzione del trono, realizzata tramite la convergenza delle linee prospettiche verso un asse centrale. Lo spazio perde quindi il carattere di irrealtà divina per acquistare la solidità e credibilità del quotidiano.

Le “vecchie” figure – legate allo stile bizantino e ai suoi schematismi – erano spesso rigide, bidimensionali e prive di partecipazione affettiva; Giotto rompe proprio con questa tradizione, rivoluzionando il modo di dipingere e di rappresentare gli uomini e andando verso il naturalismo figurativo. Dell’artista infatti non si loda solo la perizia nell’arte, ma il suo ingegno inventivo, la sua interpretazione della natura, della storia e della vita. 

Giotto non è più il sapiente artigiano che opera nel filo di una tradizione al servizio dei supremi poteri religiosi e politici, ma il personaggio storico che muta la concezione, i modi, la finalità dell’arte esercitando una profonda influenza sulla cultura del tempo. Confrontando questa Maestà con le altre due – di forma simile e raffiguranti lo stesso soggetto – custodite nella Sala 2, sarà facile capire la differenza tra un’arte ancora in parte bizantina ed una del tutto nuova, che ha in Giotto il suo maestro.

 

La fama dell’innovatore

Le notizie sulla biografia e sui primi anni dell’attività dell’artista sono purtroppo assai frammentarie. Stando a quanto riferito dalla Nuova Cronica di Giovanni Villani, Giotto sarebbe nato intorno al 1266 a Vespignano nel Mugello, nei dintorni di Firenze, e morto nel capoluogo fiorentino nel 1337. 

Tra tutte le testimonianze antiche sull’eccellenza e la fama di Giotto, la più celebre è senz’altro la terzina che Dante Alighieri dedica all’artista nel canto XI del Purgatorio:

«Credette Cimabue nella pittura

tener lo campo, e ora ha Giotto il grido,

sì che la fama di colui è scura».

Dante stesso, così fiero della propria dignità di letterato, riconosce in Giotto un eguale, la cui posizione rispetto ai maestri che l’hanno preceduto, è simile alla propria rispetto ai poeti del dolce stil novo. È inoltre dai versi danteschi che sembra aver avuto origine la tradizione – peraltro non documentata da alcun’altra fonte – secondo cui Giotto sarebbe stato allievo nella bottega di Cimabue, ben presto superato in bravura dall’artista. Nel 1334, tre anni prima della sua morte, Giotto riceve la nomina di architetto della fabbrica di Santa Maria del Fiore, riconoscimento dell’assoluta supremazia del pittore nell’ambiente fiorentino.

Tra il poeta e il pittore, le divergenze prevalgono sulle analogie. Tuttavia, nonostante abbiano operato in domini diversi, con intenti altrettanto differenti; Dante e Giotto sono considerati i due grandi pilastri di una nuova cultura, consapevole delle proprie radici storiche latine.

La Madonna col Bambino è un’iconografia tradizionale dal carattere fortemente devozionale, perciò Giotto non poteva essere completamente innovativo nel dipingerla, come invece aveva fatto nella decorazione della Cappella degli Scrovegni di Padova, raccontando le storie di Gioacchino e Anna, di Maria e di Gesù. Tra le sue opere su tavola, la Madonna di Ognissanti è la più vicina agli affreschi di Padova.

Giotto non ha inventato nuove tecniche pittoriche, ma ha trasformato profondamente il processo dell’operazione artistica: il valore dell’arte non è più, secondo l’artista, insito nella perfezione tecnica dell’esecuzione, ma è racchiuso nella forza e nella novità dell’ideazione. Ed è proprio a partire da Giotto che il disegno, come ideazione, viene considerato la necessaria premessa di ogni operazione artistica.

Ciò che maggiormente caratterizza la rivoluzione giottesca è la rappresentazione dello spazio, della profondità e del volume, delineando un ritorno al realismo dell’arte antica – dopo la visione rigida e frontale dell’arte bizantina – e l’inizio di un’arte occidentale autonoma. Sebbene la prospettiva di Giotto sia ancora intuitiva, non scientifica come quella sviluppata nel Quattrocento, la rivoluzione che porterà cento anni più tardi al Rinascimento, parte proprio da questo grande artista.

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